15 gennaio 2007

massacri e menzogne

La mia esperienza della sofferenza rientra in quella "normalità" che rende il peso sopportabile e mi permette di affrontare con la ragione e il buon senso le anomalie e le sfasature della vita.
Ma questi sono i giorni del massacro: sebbene i massacri ci siano tutti i giorni, questo è tra i fatti che richiamano stampa e esperti, più del solito. C'è una morte che non ci fa dormire che è in genere quella nostra-sconosciuta e imprevedibile- e quella efferata che avviene nelle ore in cui si fa la spesa e si lavora, violenza così vicino alla nostra normalità da sentircela al collo e poi c'è la morte lontana, delle guerre dalle bombe intelligenti, della fame e della miseria che ci coinvolge da intellettuali e da filantropi.
Mi chiedo se la strategia del terrore di cui la stampa si fa spesso portavoce, alzare la voce sull'efferato, abbia lo scopo di far percepire appunto "lontano" e di "non appartenenza" il sangue innocente dei corpi sventrati dalle guerre di esportazione della democrazia così in voga negli ultimi anni e assopire la coscienza sulla propria responsabilità.
La menzogna è chiamare il primo sangue pietanza prediletta di un demonio in azione (parola usata in quache omelia da qualche monsignore) e illudersi che in fondo l'uomo è così piccola cosa da non saper fare nè troppo male, nè troppo bene e chiamare il secondo storia contemporanea, pubblicarla sui testi e farla studiare ai liceali un giorno come storia dell'Impero. Senza scomodare le forze occulte, siamo bravi anche senza, il demonio non è altro che il volto degradato dell'uomo, e questo uomo ridotto a ferocia non ha le corna ma si lava, si veste e va a lavorare.
L'individuo o la collettività degradano fino all'animalità se esposti alla violenza dei loro bisogni e delle loro paure. Posso per un anno chiudermi nello spazio angusto dei miei pensieri torbidi e progettare l'eliminazione del nemico che crea disordine nel mio spazio, nel mio smoderato senso del diritto, nel mio tornaconto e posso chiudermi nella stanza del potere e progettare l'eliminazione del nemico che crea disordine e rallenta la produzione e minaccia il mio spazio, la mia ricchezza, i miei diritti.
Il primo si chiama omicidio efferato, il secondo si chiama guerra: io sento i brividi in entrambi i casi.
Se questo è un uomo... scriveva Primo Levi che dei campi di concentramento scopriva con orrore l'uomo, spogliato di se stesso, della sua identità di persona, come un essere meschino, pronto a far fuori il suo vicino che patisce la stessa ingiustizia perchè lui stesso ridotto a "non essere".
La mia riflessione parte da qui: un non-essere si aggira sul pianeta e convinto come è di "essere" solo perchè ha una casa, dei soldi in banca, un lavoro e dei bei mobili, vive indisturbato nelle case ordinarie dall'intonaco intatto; non lo osserviamo con attenzione e responsabilità, dal momento che si lava, semmai lo accostiamo con rispettosa indifferenza.
A fare l'uomo non saranno mai le cose: il vuoto si annida anche nelle vite con la macchina parcheggiata fuori la villetta.
Non abbiamo chiarezza nell'osservazione: ci piace pensare o ci hanno insegnato a pensare che le guerre siano giuste o che non ci riguardano come ci piace credere che gli assassini siano tutti stranieri o estranei brutti, pelosi, deformati. Ma poi la realtà ci smaschera e scopriamo che il non-essere è il potenziale dell'uomo in genere, è il suo volto estremo e come tale ci coinvolge, ci riguarda e sorprendentemente ci affascina: ecco allora la fila di gente curiosa -di cui parla oggi il Corriere-presso il cortile e la casa maledetta come se si facesse la fila per vedere Nosferatu.
Tuttavia siamo ben capaci a non andare oltre di ciò che vediamo, resta in superficie la nostra analisi, il nostro dolore, la nostra volontà di diventare uomini e incamminarci verso "l'essere".
Rimango esterefatta di fronte al non-essere collettivo che ha varcato la soglia di ogni limite, anche della sopportazione del dolore, della tolleranza alla violenza, e che lentamente scivola nella narcosi, nel non sentire più niente se non in alcuni istanti di ebbrezza che non è vera coscienza. E la mia rabbia è che l'informazione mediatica contribuisce a questa inquietante proliferazione di un nuovo umanesimo di uomini-barbari con un unica fame se non quella di nutrirsi di eccesso, come una pasticca di ecstasi, per poi tornare spenti al loro ufficio.